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Trento, 24 marzo 2001
UN VESCOVO "GIOVANNEO"
di Marco Boato
pubblicato su l'Adige del 24 marzo 2001

"In antica amicizia": queste parole di dedica, forse le ultime della sua vita, scritte con grafia tremolante lunedì 5 marzo 2001, sono il dono più bello e generoso che il vescovo Alessandro Maria Gottardi poteva farmi a meno di venti giorni dalla sua morte. Sono parole che ripercorrono il senso di un rapporto durato quasi mezzo secolo, cominciato già quando ero appena un ragazzo a Venezia, la sua e la mia città di origine.

Il 14 febbraio 1988, aprendo una lunga riflessione sui suoi venticinque anni di episcopato trentino, gli rivolgevo questo augurio: "Il cammino trentino di ‘don Sandro’ (come l’ho sempre sentito chiamare fin da ragazzo a Venezia, ai tempi del patriarca Roncalli) è stato molto lungo. E mi auguro che, lasciato l’incarico episcopale nella diocesi di Trento, la sua testimonianza duri ancora a lungo".

Così è stato, al punto di coprire ancora l’intero decennio dell’episcopato Sartori e di consegnare idealmente la "staffetta" del servizio episcopale al vescovo Bressan, che, non ancora prete, lo aveva accompagnato giovanissimo nella primavera 1963 in occasione del solenne ingresso nella diocesi di Trento. Ma così è stato soprattutto perché, con una grande discrezione e con assoluta semplicità, "don Sandro" ha davvero continuato la sua testimonianza, nonostante le ricorrenti sofferenze fisiche degli ultimi anni, anzi, facendo anche di queste una occasione evangelica di fede e di amore.

Le ultime settimane, gli ultimi giorni, le ultime ore della sua vita non saranno facilmente dimenticate da coloro - sacerdoti e laici - che hanno avuto il privilegio di stargli vicino. Il vescovo Gottardi è arrivato all’appuntamento con la morte - a cui si stava preparando serenamente da molto tempo - con lo stesso coraggio e con la stessa autenticità evangelica con cui era vissuto.

Forse non è ancora il momento per un bilancio storico del suo episcopato trentino, durato un quarto di secolo, e del suo servizio, iniziatosi ben prima a Venezia e conclusosi solo la notte scorsa nell’umile "casa S. Massenza" a villa San Nicolò. Ma credo che qualunque storico, laico o ecclesiastico, non potrà non riconoscere in lui prima di tutto e soprattutto un vescovo "giovanneo". Dal 1963 in poi il vescovo Gottardi ha vissuto a Trento, "città del Concilio" e della Controriforma, la nuova stagione della riforma cattolica e del Concilio Vaticano II: l’entusiasmante fase dell’aggiornamento giovanneo, la più difficile fase del secondo periodo conciliare, la prima difficoltà del "dopoconcilio" (fu anche il nome di una piccola, ma coraggiosa rivista trentina), l’esplodere del "dissenso cattolico" e di quella che allora veniva definita la "contestazione ecclesiale", ma anche i percorsi della ricomposizione e del dialogo, del coinvolgimento dell’intera comunità ecclesiale in uno straordinario sforzo di apertura e di rinnovamento, nella fedeltà evangelica.

Gli storici dovranno ripercorrere le tappe della ridefinizione dei confini della diocesi di Trento rispetto a quella di Bolzano e Bressanone (nel 1964), il "disimpegno" (nel 1967) della Chiesa trentina dal "quotidiano cattolico", per evitare qualunque indebita commistione politica, il dialogo tra comunità ecclesiale e società civile nel rispetto del rapporto di autonomia tra fede religiosa e scelte politiche contingenti, ma anche nella sollecitazione all’impegno sociale a servizio di tutti e in particolare dei più umili e diseredati, la capacità di affrontare con fermezza ma anche con apertura le tensioni e i veri e propri "traumi" della fine degli anni ’60, l’attenzione particolare al mondo del lavoro e ai suoi problemi (memorabile nel 1974 la "vicenda Michelin"), la sollecitudine rispetto alle nuove povertà e alle nuove emarginazioni, il nuovo afflato ecumenico e il superamento di qualunque residuo di anti-semitismo cattolico (esemplare il ristabilimento della verità storica al riguardo del falso S. Simonino), la grande sensibilità per la teologia conciliare, per la sua dimensione pastorale e non solo "dogmatica", e per la liturgia come momento fondamentale per l’annuncio della parola di Dio.

Uomo di fede e di Chiesa, il vescovo Gottardi non è mai stato un "clericale" e ha sempre avuto il più grande rispetto per i credenti in altre confessioni religiose e anche per i non-credenti. Scrivendo, nel 1988, il suo "commiato", rivolse esplicitamente le sue parole "anche a coloro che non si sentano partecipi della fede, o per qualsiasi motivo non pienamente inseriti nella comunità ecclesiale". E aggiunse: "Il saluto si estende ai disoccupati, e con essi ai poveri emarginati, agli sviati, alle vittime dell’ingiustizia, ai dimenticati, ai ‘senza voce’", aggiungendo che "molti lo sono a causa del nostro egoismo, di singoli e di intere strutture sociali".

Queste parole, scritte nel 1988 al momento del congedo dal suo episcopato trentino, non si leggono oggi senza commozione al momento del suo estremo congedo dalla vita, anche perché sono parole a cui è rimasto fedele fino all’ultimo e con gli ultimi.

Già nel 1978 don Luciano Franch aveva affermato (su "Vita Trentina") che "attraverso mille piccoli e grandi fatti si poteva respirare il profumo di quella primavera di vita e di chiesa, di cui aveva parlato papa Giovanni". Dieci anni dopo, nel 1988, don Silvio Franch così rifletteva sul significato storico dell’episcopato Gottardi: "Direi che la Chiesa trentina è stata pilotata in modo da defanatizzare e deideologizzare il mondo cattolico, sostituendo un robusto linguaggio evangelico a certi bollori clericali, puntando sull’uomo senza etichette e badando di non tagliare teste a nessuno. In questo senso, Gottardi è stato un vescovo inguaribilmente malato di speranza". Che è come dire l’opposto dei "laudatores temporis acti", da cui aveva preso tanto nettamente le distanze papa Giovanni XXIII nel discorso di apertura del Concilio Vaticano II.

Sul delicato rapporto tra fede e laicità dell’impegno politico, don Vittorio Cristelli ha dichiarato: "Il tratto distintivo di Gottardi è stato proprio quello di accettare la possibilità di opzioni diverse in campo politico pur partendo dalla stessa fede". E lo stesso don Silvio Franch aggiungeva: "Io credo che Gottardi si sia abbeverato alla lezione di Giovanni XXIII, sviluppando una ‘grammatica’ di dialogo e di apertura ecumenica di grande respiro, al di là di logiche di appartenenza e di schieramento. Posso capire dunque che l’impatto con i partiti, in quest’ottica, sia stato più difficile e sofferto".

Grazie a don Luciano Franch e a don Sergio Nicolli ho avuto il dono prezioso di essere vicino a "don Sandro" negli ultimi giorni, dopo averlo conosciuto per la prima volta da ragazzo a Venezia negli anni ’50, all’epoca del patriarca Roncalli e del suo segretario don Loris Capovilla. Ho provato una grande emozione quando lunedì 5 marzo i due vescovi hanno potuto avere l’occasione di tessere insieme l’ultimo dialogo della loro vita, mentre "don Loris" mi aveva sempre ricordato che la scelta del vescovo Gottardi per Trento era stata una decisione assunta autonomamente e in prima persona da papa Giovanni, che l’aveva avuto come vicario a Venezia. Uno straordinario intreccio di ricordi, di percorsi ecclesiali, di testimonianze evangeliche si è realizzato nella piccola "casa S. Massenza" a San Nicolò, dove il vescovo Gottardi ha affrontato la morte con lo stesso coraggio e la stessa serenità con cui ha vissuto i momenti più difficili della sua vita. Così aveva fatto, del resto, anche papa Giovanni nei giorni della sua malattia e della sua agonìa, che si concluse il 3 giugno 1963.

Anche in questo Alessandro Maria Gottardi è stato davvero un vescovo "giovanneo" ed ha lasciato un’impronta indelebile nella lunga storia della Chiesa trentina e nel suo rapporto con la società civile del Trentino, trasformandole profondamente entrambe, "inguaribilmente malato di speranza".

Marco Boato

 

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